Intervista condotta da José Carlos Francisco, con la collaborazione di Giampiero Belardinelli per la formulazione delle domande, di Júlio Schneider (traduttore di Tex per il Brasile) e di Gianni Petino per le traduzioni e le revisioni e di Bira Dantas per la caricatura.
Iniziamo con alcuni cenni biografici per presentarti agli utenti del nostro blog.
Giancarlo Malagutti: Telegrafico: sono nato a Virgilio, Mantova, un giorno d’aprile del 1955. Facevo fumetti, dopo un periodo come pubblicitario ho ripreso a farli (solo i miei ora). Per mangiare e pagare le fatture illustro libri e manuali tecnici, scrivo libri di cucina e altre cosette.
Quali sono state le tue letture fumettistiche nell’infanzia e adolescenza?
Giancarlo Malagutti: Cavolo, roba da seduta psicanalitica, ma se a qualcuno interessa, nell’infanzia ho letto ben pochi fumetti, sono stato più indirizzato (non credo per mia volontà) verso i libri per l’infanzia. La mia scuola aveva una biblioteca ben fornita di tutti i classici titoli per ragazzi. Però attorno ai 7/8 anni i miei mi fecero l’abbonamento al Messaggero dei Ragazzi, un quindicinale che pubblicava buon materiale franco-belga. Ricordo personaggi come Moky e Poupy, Tony Laflamme, Jim e Heppy che oggi, in età veneranda, sto ricomperando nelle ristampe delle Editions du Triomphe. Sono, apparentemente, storie un po’ ingenue però molto ben fatte ma il mio giudizio su loro è sospeso perché viziato dall’averle, nella mia memoria, collocate nel periodo nostalgia. Successivamente, a 9 anni, durante una vacanza in Abruzzo (terra della quale ho splendidi ricordi sia del luogo che della gente), scoprii Blek Macigno, Capitan Miki e soprattutto Zagor. E un giorno nella cantina di quella casa delle vacanze trovai uno scatola con Diabolik, Kriminal e Satanik. Queste avventure adulte (oggi roba da educande) possedevano per me ragazzino una forza d’attrazione fortissima. Da adolescente avendo già iniziato a frequentare (e tentare di fare) fumetti leggevo di tutto perché supponevo fosse un atteggiamento da professionisti. In ogni caso mi sono costruito una memoria storica sul fumetto che mi permette di conoscere, e a volte scrivere, sull’argomento oltre che aver potuto conoscere personalmente molti autori oggi, purtroppo, scomparsi. Nel 1969 arrivò Alan Ford e fu amore.
Hai avuto la fortuna di conoscere i creatori di Tex, tant’è vero che Galep ha disegnato un tuo ritratto per illustrare una biografia tua. Puoi dirci in quale circostanza hai conosciuto Galep e Gian Luigi Bonelli e com’erano i “padri” di Tex?
Giancarlo Malagutti: Fortuna è proprio il termine esatto perché questi due Signori erano dei veri giganti del fumetto (e non solo), facevano qualcosa di importante ed erano di una semplicità disarmante. Galep lo conobbi a Milano in un famoso negozio di belle arti dalle parti di Brera (Accademia di Belle Arti) dove i fumettari andavano a comperare i pennelli Windor & Newton, carta Schoeller a quant’altro. Vidi questo signore che stava schizzando un Tex per uno dei commessi – Galep ogni volta che andava a Milano in redazione passava poi a rifornirsi di materiale in questo negozio e si concedeva per dediche e disegni. Quella volta non ebbi il coraggio di presentarmi, ero un ragazzetto che andava in quel negozio perché faceva professionista. Successivamente lo rividi in Bonelli (Araldo) e mi fu presentato da Raffaele Cormio. Galep gentiluomo quale era mi regalò consigli, parole di incoraggiamento e una striscia originale di una sequenza di Tex che aveva rifatto. Un giorno gli chiesi, timidamente, se avesse avuto voglia di farmi un ritrattino per corredare la mia bio su un mio (infame) fumetto che stava per essere pubblicato. Il suo disegno avrebbe nobilitato la pubblicazione. Non passarono molti giorni che ricevetti una busta e, con emozione, vi trovai il disegno.
Fino alla sua scomparsa ogni tanto ci si sentiva o ci si vedeva occasionalmente a qualche manifestazione. Possiamo dire che la statura umana rivaleggiava con quella artistica. Stesso discorso vale per G. L. Bonelli, anche lui presentatomi da Cormio. Restai fortemente impressionato da quell’uomo e qualche tempo dopo chiesi, con i buoni uffici di Cormio, un incontro per una intervista. Devo confessare che non avevo alcun giornale o fanzine alle spalle ma sapevo che da qualche parte l’avrei pubblicata (poi smembrata fu usata per uno speciale ANAF sui 30 anni di Tex). Bonelli mi ricevette nel suo studio privato, pieno di bei libri e riviste sul West che mi ingolosivano. Lui era un mostro sacro del fumetto e benché si trovasse davanti un ragazzotto si comportò come se avesse di fronte Enzo Biagi (decano dei giornalisti italiani, 1920-2007). Vista la mia forte passione e buona conoscenza del fumetto in genere e del suo in particolare (la letture di tanti fumetti era servita) si lasciò andare ad un fiume di affascinanti ricordi e racconti su Tex, il West e la sua vita, non meno avventurosa di quella di Tex.
Oggi, in epoca internet, è difficile crederlo ma allora poco si sapeva del dietro le quinte e fu lui a rivelarmi che Guido Nolitta era suo figlio Sergio per il quale nutriva un forte affetto e che riteneva molto più bravo di lui nello scrivere storie più introspettive e umoristiche. Lui (G. L.) quel “coso” li (il Cico) non lo avrebbe saputo gestire, infatti quando prese in mano Zagor per un breve periodo, Cico lo faceva rapire o allontanare con scuse varie. In quel momento stava lavorando su un paio di sceneggiature di Tex e, con l’aiuto di un righello e una mappa del Nord America, stava calcolando il tempo che avrebbe impiegato Tex per percorrere una certa pista. Nell’altra c’era una donna, mi disse di non essere soddisfatto perché personaggi femminili ne utilizzava pochi e quando c’erano, secondo lui, pregiudicavano la fluidità della storia. Se c’era un cattivo misterioso era facile intuire che fosse la ragazza. Mi citò ad esempio Il ritorno del drago (Tex #109 et segg.) nella quale storia, sempre secondo lui, la chiave gialla era debole in quanto il lettore, per i motivi di cui sopra, intuiva troppo velocemente.
A mio parere quella è una bellissima storia e, citando Milton Caniff, potremmo dire, il lettore intuisce spesso come andrà a finire, l’abilità è stupirlo conducendolo con creatività, inventiva e abilità per percorsi inusuali. E G. L. Bonelli di abilità ne aveva da vendere. Aveva anche una visione molto lucida del suo valore e del suo lavoro, lui sapeva di scrivere per un bacino di lettori enorme e mai si è lasciato andare a dialoghi ombelicali o che esprimessero esplicitamente le sue convinzioni sociali o politiche. A un certo punto mi mostrò la sua sceneggiatura per il film su Tex, del quale si parlava da tempo, ed era piuttosto infastidito perché il progetto segnava il passo e che, oltre a cambiargli il soggetto, gli proponevano interpreti assolutamente improbabili – fece alcuni nomi e aveva assolutamente ragione. Mi congedò non prima di avermi fatto dono di un volume di un suo fumetto con dedica decisamente bonelliana e alcune pagine di una sua vecchia sceneggiatura di Tex con i suoi schizzi. Pagine che da anni ricerco nel mio studio, chissà dove i Gremlins dei libri le hanno nascoste.
Hai intrapreso l’attività professionale come disegnatore: quali sono gli autori che più ti hanno influenzato?
Giancarlo Malagutti: Da giovani si viene influenzati da tutti (Oddio, a me capita ancora oggi di vedere un bel disegno e volerlo studiare). All’inizio, come tutti quelli della mia generazione, il faro è stato Magnus, poi Galep, Ferri, Ticci, Lettèri e tutti quelli dei fumetti che leggevo. In seguito, quando ho cominciato a lavorare in studio da Giorgio Montorio, lui mi fece conoscere i grandi maestri, cominciai allora a studiare Alex Raymond, Hal Foster, Dan Barry e, poiché Giorgio ne aveva una vera idolatria, il Leonard Starr di Mary Perkins. Facendo molte cose diverse, dalle storie libere ai tascabili, spesso e volentieri mi innamoravo di un autore appena scoperto che serviva da ispirazione. Credo di aver oscillato da Ferri a Tibet, da Joe Kubert ad Alessandrini che (poiché lo sapevo quasi mio coetaneo) “odiavo” perché lui era bravo e io uno “zappatore”. In seguito, sapendo di non avere un disegno michelangiolesco (o raymondiano), mi sono spostato su una linea chiara benché continui ad ammirare autori dal segno più sporco, Joe Kubert su tutti. Parafrasando Beppe Viola (giornalista-scrittore italiano, 1939-1982) “Sarei disposto ad accettare di avere 37 e 2 per tutta la vita in cambio della mano di Mastantuono”.
Hai avuto una formazione artistica? Di che tipo?
Giancarlo Malagutti: Se per formazione artistica intendiamo quella scolastica, ahimè, non l’ho avuta perché ho frequentato l’istituto tecnico (elettronica), disciplina piuttosto lontana dal disegnatore (di fumetti e non) ma utile nella vita perché ancor oggi so gestire un impianto elettrico o riparare un elettrodomestico. Però fin da bambino, dimostrando tendenze artistiche, sono stato aiutato sia in famiglia che a scuola con suggerimenti, materiali e giochi didattici per il disegno. Inoltre, combinazione fortunata, sono stato circondato da persone con alto tasso artistico, nella mia via vivevano ragazzi e ragazze, di qualche anno più grandi, dotati di abilità artistiche (frequenteranno tutti la scuola d’arte) e io bambino di pochi anni venivo consigliato e aiutato su come gestire il disegno.
Cosa è per te il fumetto, sia come linguaggio che come esperienza professionale?
Giancarlo Malagutti: Sul fumetto come media si sono espresse persone ben più titolate di me, io da modesto operatore del settore posso solo dire che credo sia un media che ha la dignità degli altri media e credo che nel futuro, tra naturali alti e bassi, continuerà ad esistere anche su altri supporti, non necessariamente solo su carta o digitale. Personalmente il fumetto è un linguaggio che ho sentito come mio e con il quale mi veniva (e mi viene) più facile comunicare. Un mezzo espressivo che non richiede molti mezzi né l’ausilio di terze persone per la realizzazione. Per poter comunicare qualcosa (bene o male) bastano dei fogli di carta, un pennello o un pennarello. Come esperienza professionale mi ha permesso di poter fare le cose che mi piacevano e, con una battuta sfruttata, venir pagato per fare quello che mi piace. Crescendo in una piccola città di provincia, dove altri mezzi espressivi erano meno accessibili, il fumetto mi ha permesso di poter realizzare un bisogno comunicativo; fossi nato a Roma forse ci si poteva indirizzare verso il cinema.
Purtroppo il fumetto italiano non ha investito (e non investe) in giovani e idee, non ci sono editori né grandi né piccoli che abbiano questo coraggio. Molto più facile comperare all’estero e tradurre. Una visione miope in quanto nessuno di loro, al di là del (poco) soldo immediato, avrà mai un pacchetto di storie da riutilizzare in futuro per ristampe, proposte per altri media, ecc. I francesi hanno buon gioco a venire a fare shopping tra i nostri autori, loro pubblicano molte cose nuove, sperimentano, saggiano il mercato. Da noi il solo Bonelli continua a tentare nuovi prodotti e può permettersi di scegliere tra il meglio. Gli va dato enorme merito di essere una persona corretta e leale nei confronti dei suoi collaboratori, altri cosiddetti “capitani d’industria” in un regime di quasi totale monopolio ne approfitterebbero per sopraffare gli autori e imporre bassi compensi. Bonelli continua a rispettare gli impegni. Non è poco.
Nel 1973 hai realizzato le matite di alcuni episodi pubblicati sulla rivista Horror. Con quali autori hai collaborato?
Giancarlo Malagutti: Ho lavorato per Horror ma non pubblicato su Horror. Quando iniziai a frequentare lo studio di Giorgio Montorio lui collaborava con la Casa Editrice Astorina di Gino Sansoni portando avanti la serie Teddy Bob e storie brevi per Horror. Cominciai a fare qualcosa sulle sue tavole e, bontà sua, anche a fare qualche prima tavola a matita che lui sistemava e inchiostrava. Ma, dati i tempi tecnici, una volta che furono completate queste mie prime tavole, Horror chiuse e furono dirottate su Super Vip (erede di Horror) e sugli Horror Pocket. Non ricordo alcun nome di sceneggiatori che fornivano i copioni tranne Alfredo Castelli che era per me un mito essendo io un fan di Scheletrino. Probabilmente oggi qualcuno di questi sceneggiatori è famosissimo. Dovrei controllare sugli albi (che non ho) perché anni fa, preso da una violenta crisi di rigetto, buttai tutte le mie collezioni compresi i miei lavori. Successivamente, nell’ultimo periodo prima che Sansoni chiudesse, fornivamo storie “chiavi in mano” testo e disegni.
In seguito hai disegnato storie per adulti per Renzo Barbieri e Giorgio Cavedon. Cosa ti rimane di quell’esperienza?
Giancarlo Malagutti: Poco o niente. Non perché voglia rinnegare quel passato, non sono così ipocrita, ma, benché abbia fatto un notevole volume di tavole per questi tascabili, sento di non averci mai lavorato seriamente e di poterli sentire come miei lavori. Spiego: la collaborazione con la Edifumetto di Renzo Barbieri iniziò quando Pier Carpi, che voleva resuscitare Teddy Bob, si inventò Solitario Boy, cercò Montorio come naturale disegnatore e io vi partecipai come sempre ai fumetti di Giorgio. La testata per qualche motivo non partì e ne uscì un solo numero ma Barbieri voleva che la collaborazione continuasse e ci diede altre sceneggiature per i tascabili sexy-horror che, tra l’altro, in quegli anni andavano fortissimo, le storie erano buone e i disegni parecchio validi. Ricordo bene solo la prima, una storia di schiavismo e zombismo ambientata nel ‘800 americano (molto leggera, qualche nudo, linguaggio abbastanza corretto, oggi roba per tutti) per la realizzazione della quale io e Giorgio impiegammo più di due mesi andando alla ricerca di materiale di documentazione. Questa fu l’ultima sulla quale lavorammo con lo spirito dei “vecchi tempi”, il mondo stava cambiando. Forse ne facemmo qualche altra ma non lo ricordo, comunque subito dopo partii per il servizio militare e al mio ritorno Giorgio disegnava Diabolik.
Le altre tavole le ho fatte anni dopo in coppia con Manlio Truscia ma era lui ad avere i contatti e contratti con gli editori. Truscia, in perenne ritardo, mi chiedeva aiuto e ci mettevamo a disegnare tavole su tavole, spesso non sapevo nemmeno di quale testata tanto le storie si assomigliavano l’un l’altra. In ogni caso il periodo è stato molto formativo, da Montorio ho appreso la serietà e il rispetto per l’editore e le date di consegna, con Truscia la velocità, il non andare in ansia e saper lavorare in ogni luogo e sotto ogni situazione (perfino in treno). Nell’ultimo periodo, con Truscia, facevamo un albo in 24 ore (testo, disegno e lettering). Qualcuno potrebbe contestare dicendo che erano fatti da cani. Sbagliato! Seppur fatti alla velocità della luce hanno una qualità sufficiente, a volte più che buona. Eravamo attrezzati tecnicamente e mentalmente e ci venivano facili. Però il momento magico delle storie sexy (con idee) era passato, ora per contrastare la concorrenza delle riviste fotografiche e del nascente mercato delle videocassette XXX, il fumetto vivacchiava e si adeguava verso il basso. Il fumetto erotico in quegli anni era considerato, nel migliore dei casi, spazzatura (per non dire di peggio) e chi ci lavorava un poveraccio (se giovane) o un fallito (se più anziano), ma erano invece delle ottime palestre che hanno allevato e cresciuto fior di professionisti. Ce ne fossero oggi di queste pubblicazioni e questa alta produzione di albi. Il buffo (o il tragico) è che i più feroci denigratori (limitatamente ai fumettari) una volta entrato in crisi il fumetto all’inizio degli anni ‘80 hanno poi fatto la fila per entrare in questo settore.
La tua firma, inoltre, la ritroviamo sulle testate dell’Editrice Universo. A distanza di tanti anni, come giudichi quei lavori?
Giancarlo Malagutti: Anche questi (come per i tascabili) erano, usando un termine abusato, “lavori alimentari”. All’inizio negli anni ‘70 con Montorio mettevamo molta cura, passavano ore in biblioteca a consultare libri per trovare la documentazione migliore ma poi l’entusiasmo si spense. Per vari motivi. Erano arrivati lavori più interessanti, il rapporto con la casa editrice era difficile, si veniva spesso pagati in ritardo e poi, come detto, i tempi erano cambiati, avevamo una inflazione a due zeri, il petrolio era alle stelle, il costo della vita aumentato esponenzialmente mentre i compensi no. Così iniziammo a produrre più velocemente, in modo più industriale, e in questo modo i ricordi e le emozioni si fissano meno nella memoria.
Per fare un esempio, nella prima metà degli anni ‘70 (Montorio ed io) producevamo una storia per Barbieri in un mese e mezzo o due e 12 tavole per L’intrepido in un mese. Nella seconda metà del decennio (Truscia ed io) la stessa quantità di tavole (ma anche Giorgio fu costretto ad accelerare) in due o tre giorni e a volte in un giorno (notte compresa). Ma eravamo giovani, ci si divertiva e poi avevamo un sacco di sogni e di speranze. Il giudizio sui lavori (nostri) è sufficiente, per alcuni anche ottimo quando la sceneggiatura lo consentiva. Resta comunque un periodo (per noi ma anche per il fumetto) molto importante, c’era molto lavoro e si accumulava esperienza. Le testate erano parecchie, infatti con Truscia, alternandoci, facemmo anche parecchie storie per Adamo, pubblicazione della editoriale Corno sullo stile Monello, Lanciostory et simili. Per Adamo realizzavamo 4 o 5 (non ricordo più) serie diverse con stili differenti.
Quando hai iniziato la tua collaborazione con Sergio Zaniboni – inchiostrando le sue matite – immaginavi la tua trasformazione da disegnatore a sceneggiatore?
Giancarlo Malagutti: La collaborazione iniziò con Diabolik, Zaniboni era uno dei disegnatori della testata. Mentre ero a militare Montorio era stato cercato dalle sorelle Giussani e aveva iniziato la collaborazione per Diabolik diventandone inchiostratore (che ancora oggi fa benissimo). Al mio ritorno cercai lavoro ma era un periodo difficile, diverse case editrici (soprattutto le minori) preferivano delegare i compiti redazionali a quelle che si chiamavano “le agenzie”, studi di intermediazione gestite da gente più o meno capace e più o meno onesta che si incaricava di fornire un tot di tavole mensili sollevando la redazione dai contatti con gli autori. Se cercavi lavoro finivi quasi inevitabilmente per venire rimpallato verso una di queste “agenzie”. I compensi erano estremamente bassi, l’agente (avrei altri termini ma sono da denuncia) si tratteneva dal 50 all’80 percento). A queste condizioni preferii tornare in studio da Montorio, quello che mi dava lui era dato con onestà. Cominciai a inchiostrare matite (per lo più fondi) di Facciolo, Bozzoli, Zaniboni.
Le matite di Facciolo e Bozzoli erano molto belle e pulite e facili da inchiostrare ma (non me ne vogliano gli altri) quando ci arrivavano quelle di Zaniboni erano uno spettacolo. Ricordo tra le molte la sequenza di un incidente automobilistico che Zaniboni realizzò in sequenza fotografando modellini d’auto e una Eva Kant vestita da suora che era di una bellezza da togliere il fiato. Facemmo fotocopie delle matite perché la china l’avrebbe cambiata, le indicazioni delle Giussani erano di sintetizzare il segno, usare un bianco e nero più secco. Le Giussani farcivano i bordi delle tavole con parecchie indicazioni per “correggere” le matite secondo il loro gusto. Assottigliare le caviglie di Eva, ridurle il seno erano indicazioni standard. Spesso Eva indossava tutine e/o maglioncini neri e nel ripasso (o nel riempimento della campitura nera) mi divertivo ad allargarlo (di un po’) il seno e nessuno se ne accorgeva. Il mio sogno era (e forse ci sono riuscito) disegnare sul comodino della stanza da letto di Eva e DK una confezione di pillole anticoncezionali. Tornado alla domanda fu in questa sede che iniziai a sceneggiare, almeno professionalmente, nel senso che venivo pagato per farle. Avvenne anche questo per caso, una delle tante volte che andai a consegnare le tavole in redazione, e le Sorelle, probabilmente in difficoltà coi tempi, mi chiesero se sapevo sceneggiare (dissi immediatamente sì) e mi chiesero quanto tempo impiegavo.
Avevo fatto solo cose per me e non avevo una tabella professionale rodata ma ricordavo di avere letto che Luciano Secchi aveva detto di fare una sceneggiatura di Alan Ford in 12/14 ore e Sergio (Nolitta) Bonelli 50/70 pagine in una domenica pomeriggio ascoltano le partite di calcio alla radio. Così sparai: “2 giorni”. Immagino che le Giussani pensarono di avere di fronte un fanfarone che andava messo alla prova e spernacchiato, e uscii con un soggetto. I soggetti di DK sono sempre già ben risolti e molto dettagliati, mi misi di buona lena (il lavoro più pesante era la battitura dei testi) e due giorni dopo mi presentavo in redazione con le 120 pagine. Le due signore la vollero leggere mentre io attendevo ma, a parte cose che tanto loro avrebbero cambiato in ogni caso, la approvarono. In questa sede capii che se scrivi su personaggi di altri sia che tu impieghi un anno o un giorno e ti faccia venire l’ulcera per lo stress, il creatore della serie troverà sempre sequenze che lui (o lei) avrebbe risolto in altro modo e quindi, per lui “sbagliate”. Mi capita spesso di raccogliere gli sfoghi di sceneggiatori che dopo aver faticato mesi su una storia alla consegna si sentano rimproverare. Sapevo che quello che davo alle Giussani non era il massimo e lo sapevano anche loro; ma risolvevo in due giorni e loro avevano poi il mese intero per limare, pulire, riscrivere.
Come mai hai abbandonato il disegno a favore della scrittura creativa?
Giancarlo Malagutti: Per un motivo semplice: con la sceneggiatura si guadagnava bene e, a differenza del disegno, la puoi fare dappertutto, al bar, in spiaggia, e col disegno si è invece inchiodati al tavolo. Fare fumetti è raccontare e con la scrittura racconti più facilmente e velocemente. E poi, onestamente, non è che fossi un grande artista, ogni cosa che disegnavo mi costava molta fatica, fare un certo numero di tavole mensili richiede una costanza e molte ore di applicazione giornaliera.
Mi spiace dover sempre dire che erano altri tempi ma allora si rivaleggiava con disegnatori che sfornavano una o due tavole al giorno e alcuni anche di più, mentre io avevo tempi di lavoro più vicini ai quelli di oggi, dove un disegnatore fa 5 tavole al mese. Voi stessi del blog di Tex fate spesso paragoni tra i “vecchi” e i “nuovi”. Il Galep (come altri) dei bei tempi era veloce, curato e dettagliato, era un talento, una forza della natura. Lo spazio di reazione cervello-mano era vicino allo zero. Io, come molti disegnatori di oggi, lavoravo (e lavoro) costruendo la figura, la scena, lucidandola, ripulendola, facendola riposare. Un lavoro lungo che oggi posso permettermi perché lavoro su prodotti miei senza assilli di consegna.
Quali delle serie da te ideate e sceneggiate ricordi con più piacere?
Giancarlo Malagutti: Di serie mie ne ho fatte ben poche. Ricordo con piacere “I Reporters” pubblicata su Orient Express, sia per gli splendidi disegni di Zaniboni sia per il gusto di sceneggiare in stile telefilm, che però non fu molto apprezzato e la serie a mio parere avrebbe meritato un po’ di più. Ma è l’editore che paga e quindi decide. Poi una serie di derivazione giapponese, la Principessa Zaffiro, che ci venne commissionata, come tante altre del genere che feci negli anni ‘80, senza alcuna indicazione su come si articolasse l’avventura o la psicologia dei personaggi. Per Zaffiro ci dissero che c’era questa principessa che si vestiva da uomo per non perdere il trono e che due ciambellani del re cercavano di smascherarla per detronizzarla. Così i protagonisti divennero i cattivi (specie di Oliver Hardy e Stan Laurel) con la creatività di Willy Coyote, che architettavano i trucchi più cervellotici per smascherare la principessina (la quale quando era in difficoltà faceva ricorso – troppo comodo – alla magia di un angelo custode). Alla fine i cattivi perdevano ma la simpatia andava a loro che si davano da fare. Anni dopo ho saputo che i lettori scrivevano infuriati al giornale perché questa (e altre serie) non assomigliava ai cartoni televisivi. E poi sono molto legato a un personaggio inedito, Adam, fatto con Manlio Truscia. Un fumetto che ha avuto una gestazione e uno sviluppo più avventuro e creativo della storia stessa come si potrà leggere nella presentazione (di 30 pagg.) nell’albo di prossima pubblicazione.
Come sei entrato in contatto con la Sergio Bonelli Editore?
Giancarlo Malagutti: Da ragazzino. Un amico di mio padre un giorno prese alcuni miei disegni e fece il giro delle case editrici milanesi. Suppongo che fu scoraggiato in tutte quelle in cui entrò a mostrarli ma per mia fortuna bussò anche alla porta della Araldo che allora era in via Francesco Ferruccio. Mi telefonò per dirmi che un signore gentile (Raffaele Cormio) aveva espresso giudizi positivi e si rendeva disponibile per incontrarmi. Volai. Cormio mi ricevette con molta gentilezza, aveva sul suo tavolo, di grafico, molti dei fumetti che stavano producendo. Ricordo delle magnifiche copertine di Ferri per Zagor. Fu prodigo di consigli, giudicò con molta onestà quei miei lavori immaturi ma vista la mia forte passione mi invogliò a continuare e a portargli i disegni che nel frattempo avrei realizzato; in fondo ero ancora un bambino, ricordo che mancavano pochi giorni al mio quattordicesimo compleanno. Anche lui (come Bonelli e Galep più avanti) non mi fece uscire senza avermi dato qualche albo e del materiale professionale per disegnare.
In seguito con una certa frequenza andavo a mostrare le mie cose. Forse ci vide dei miglioramenti perché un giorno mi consigliò di trovare un disegnatore professionista (magari nella mia zona) e andare a “bottega”. Mi ricordai che a scuola avevo sentito parlare di un disegnatore di fumetti che viveva a Mantova. Con una vera odissea, amici di amici del cognato della portinaia che andava a scuola col nipote della fornaia vicina alla casa del cugino di… arrivai alla casa dell’Innominato” (questa la può capire solo Montorio) il quale mi disse che non faceva fumetti professionalmente ma mi dette l’indirizzo di chi li faceva: Giorgio Montorio. Incredibilmente Giorgio viveva e lavorava in un paese vicino, a due chilometri da casa mia. Tanto per dare l’idea di quanto il fumettaro fosse un lavoro anonimo.
Com’è stato il tuo approccio con il Martin Mystère di Alfredo Castelli?
Giancarlo Malagutti: Da fan di Castelli mi ero divertito con il suo Scheletrino, con le storie su Horror, sul Corriere dei Ragazzi e Il Giornalino ma non lo conoscevo, non sapevo nemmeno che faccia avesse, inoltre alla metà degli anni ‘70 era un po’ sparito. Un giorno comprai la copia fresca di stampa di WOW (una bella fanzine di Luigi F. Bona) nella quale compariva una intervista a Castelli, che diceva finalmente cose che io (e altri) pensavamo sul fumetto ma non avevamo il coraggio di dirlo. Quella sera stessa gli telefonai, dopo le presentazioni e i complimenti, finimmo per parlare di lavoro, “che fai? dove pubblichi?” ecc. Disse che stava riprendendo a scrivere, questa volta per Bonelli e che stava producendo sceneggiature per il personaggio Mister No, se gli avessi mandato qualcosa da vedere, sempre che fossero piaciute a Bonelli, si poteva fare qualcosa. Misi insieme velocemente delle fotocopie degli ultimi lavori fatti con Montorio per l’Universo e spedii. Arrivò la risposta positiva e una sceneggiatura. Nel frattempo io mi ero trasferito a Milano e Giorgio lo disegnò da solo.
A Milano con Castelli ci si vedeva abbastanza spesso, lui stava preparando Martin Mystère che era la versione bonellianamente seriale di Allan Quatermain disegnata da Busticchi e pubblicata qualche anno prima su Supergulp della Mondadori, testata per la quale avevo disegnato una versione per bambini dell’Uomo Ragno. Castelli mi parlava di questo personaggio in gestazione, non so se si chiamasse già Martin Mystère o ancora Doc Robinson, aveva delle ottime idee su come sviluppare la sceneggiatura (idee che Sclavi avrebbe egregiamente sviluppato qualche anno dopo in Dylan Dog) ne parlava, mi piacevano, ma diceva che Bonelli lo avrebbe preferito con un impianto più classico. Il che non ha impedito a MM di essere lo spartiacque, il balzo in avanti tra il “vecchio” e il “nuovo”, e grazie a lui poi son potute arrivare le serie di oggi. Comunque, poiché il progetto avanzava e Castelli saggiava possibili collaborazioni, chiese anche a me di buttare giù delle idee e accettò quella di Mister Mind e degli Scanners. Storia che poi uscì tre anni dopo ma era stata scritta in contemporanea all’uscita del primo o secondo numero e compare con una mia semplice collaborazione al testo ma, controllando la sceneggiatura, mi pare cambiata nelle solite parti e nella maturazione del personaggio. Questa non è una critica, Castelli si è sempre mostrato molto disponibile, generoso.
Per quale motivo hai lasciato – per un certo periodo – il lavoro fumettistico?
Giancarlo Malagutti: Oddio, benché il 1982 fu anno nel quale avevo lavorato parecchio non è che gli editori facessero a botte per avermi. Ero stanco, non sembra ma facevo fumetti, respiravo fumetti, mangiavo fumetti da un sacco di anni, tutta la mia adolescenza e prima maturità. Ero in overdose. E demoralizzato, quello in cui credevo non era andato, quel che mi sarebbe piaciuto fare (esempio sceneggiare Zagor) e che mi veniva anche bene (Francesco Coniglio si era molto speso per me) non riuscivo ad ottenerlo, mollai. Partii per gli Stati Uniti per una quelle mie lunghissime vacanze che mi servono da periodo di decompressione quando sono “scoppiato”. Rientrato trovai il mondo dell’editoria a fumetti in uno stato peggiore di quando ero partito. In quel periodo a Milano proliferavano le agenzie pubblicitarie grazie all’incremento enorme di lavoro dovuto all’avvento delle TV commerciali. Dopo aver fatto qualcosa tornai a Mantova, territorio vergine, e aprii uno studio pubblicitario. Agganciai alcuni grossi clienti e ne curai la pubblicità per diversi anni. Il fumetto (primo amore) non lo abbandonai completamente, in quegli anni con Truscia portammo a termine il progetto Adam, feci parecchie pubblicità usando il media fumetto, realizzai un supplemento comics (con firme prestigiose) tra le quali anche Silver di Lupo Alberto per La Gazzetta di Mantova.
Riuscii anche ad avere un precontratto per la versione a fumetti di Toby Peters, l’investigatore creato da Stuart Kaminsky, ma mancando le riviste contenitore la cosa abortì. Negli anni ‘80 finanziatori non mancavano, progettai un paio di riviste a fumetti – ho ancora i menabò da qualche parte – le spese le avrebbe sostenute la pubblicità all’interno. Ma anche quelle idee non trovarono seguito, i fumettari erano ancora abituati a un salario a tavola, difficile far capire i compensi a percentuale. Capisco se lavori su commissione ma se vuoi pubblicare una tua idea devi metterci un po’ di rischio. Non ricordo chi lo abbia detto “ma se non sei disposto a rischiare per le tue idee o non vale niente l’idea o non vali niente tu”.
Sulla tua scheda, nell’enciclopedia online Wikipedia, leggiamo del tuo nuovo personaggio: Mathias. Puoi parlarcene?
Giancarlo Malagutti: Volentieri. La serie Mathias sviluppa le avventure di due bambini, Mathias e Anna. Mathias incontra Anna in montagna dove va a passare le vacanze dai nonni e da qui prendono il via le avventure con un tanto di fantastico. Il mio progetto per ora si sviluppa in 9 albi, avventure di 44 tavole ciascuno, sono storie autoconclusive ma lette nell’ordine (hanno uno sviluppo temporale) danno l’idea migliore dei personaggi.
Ho voluto ambientarli in Italia ma si tratta di location famose o luoghi che possono trovarsi in ogni parte del mondo. Sono bambini avventurosi ma non fanno cose mirabolanti, divertenti e inaspettate forse, ma non assurde; per me i bambini devono vivere avventure da bambini e svilupparsi in modo reale. Ad esempio non stanno fuori la notte e non vanno in città o stati vicini per risolvere casi che nemmeno la CIA. Ho sempre creduto che si possano scrivere storie anche senza mettere in campo la distruzione del mondo o omicidi a catena. Per la gente normale è già un dramma non riuscire a pagare la rata del mutuo. Qui poi trattandosi di bambini, la violenza non esiste, o meglio compare la prepotenza non la violenza. Non chiedermi se la porterei a Bonelli, non è quel target e poi mi dicono che Sergio non ami i fumetti con i bambini.
Come procedi nella creazione? Fai una pagina completa e dopo passi all’altra? E quali strumenti di lavoro utilizzi?
Giancarlo Malagutti: Devo dividere le esperienze in segmenti temporali talmente diversi uno dall’altro che a volte mi sembra di aver vissuto vite diverse. All’inizio con Montorio si andava piano, si discuteva, ci si fermava a prendere il caffè e fare salotto, poi con Truscia ore di lavoro frenetico, in casa, in macchina, in ascensore prima di suonare il campanello della casa editrice. Nel passato il procedimento era (permettimelo) geniale poiché la tendenza (lo è anche oggi ) è di accelerare alla fine perché i tempi stringono (e in casa editrice lo sanno) così aggiravamo l’ostacolo: si divideva la storia in tre – quattro blocchi e si partiva dall’ultimo, per saltare al secondo poi al primo e al terzo. In questo modo le tavole ultime “tirate via” erano rimescolate e era più difficile farci le pulci. Oggi, visto che l’unico fumetto che disegno è il mio Mathias, ho un approccio, se vogliamo, più progettuale.
Una volta pensata l’idea e accumulato libri e riviste sul tema da trattare, butto giù un soggetto per punti che abbia uno sviluppo a racconto. Poi lo sceneggio a storyboard con scene abbozzate, qualche dialogo nei punti chiave o qualche appunto se mi è venuta un’idea che credo buona. Comincio a disegnare dalla prima tavola in avanti in modo che la storia si crei e sviluppi davanti ai miei occhi. Se qualcosa mi crea problemi o non mi soddisfa, la salto, ma lasciando le vignette già modulate. Mentre disegno (non credo capiti solo a me) vedo la storia svilupparsi meglio, sento i personaggi vivere e mi vengono situazioni e battute che a “freddo” mentre scrivevo la sceneggiatura non avevo (e non avrei) pensato. Spesso mi capita di passare intere giornate a cercare un particolare abito, un certo mobile, un oggetto d’arredamento. Ad esempio, se la scena si svolge nella casa di un “cattivo” che vedo di solito come un arricchito con poco gusto estetico, l’arredamento sarà sovraccarico di oggetti, gli arricchiti amano il barocco, il sovrabbondante, la mescolanza di stili.
Questo non fa di me un fanatico del verismo a tutti i costi, certo non metto la torre di Pisa ad Arezzo ma non vado a cercare il lampione giusto per quella via o città. Se faccio una storia ambientata a Venezia studio l’architettura, le finestre moresche, i particolari camini ma poi disegno facendo un mix, cerco di dare l’atmosfera. Se il cinema si permette invenzioni incredibili per le locations, perché nel fumetto si deve essere vincolati a un verismo senza senso? E poi se metto un cattivo (carogna) in una certa casa, il proprietario o chi ci abita, riconoscendola potrebbe anche seccarsi e fare causa. Non è detto che prima o poi non accada. Tecnicamente disegno con dei semplici pennarelli morbidi Pilot su del banale cartoncino bianco. I miei originali sono pieni di pecette, incollamenti, rifacimenti, una volta impostata la tavola spesso faccio scene a parte e poi passo al “montaggio”. Sovente mi restano vignette che non posso utilizzare. Ho sempre creduto che il fumetto viva stampato, l’originale è solo uno stadio intermedio tra l’idea e l’edicola.
Quanto tempo impieghi per disegnare una tavola? Hai degli orari? Come si articola una tua giornata tipo fra lavoro, letture, tenerti informato, ozio, vita familiare?
Giancarlo Malagutti: Come si può desumere da quello finora detto, non ho una statistica ma prendendo come parametro Mathias, suppongo di poter fare una tavola ogni 3/4 giorni. In ogni caso, per completare una storia di 44 tavole, compresi lettering e copertina, impiego circa un anno. Causa problemi familiari riesco a lavorare solo di pomeriggio e nel dopo cena e, benché ormai sia ormai una specie di orso-eremita, mantengo un minimo di vita sociale. Se per ozio intendi lo stare seduto o sdraiato a poltrire, non ne ho il tempo, riesco appena a leggere i giornali. Mi rilasso cucinando (anche perché devo) e alla sera anche se sono “cotto” non rinuncio a leggere un po’. La TV è talmente penosa che tranne qualche buon telefilm (House, The Shields) ben difficilmente mi attira.
Come analizzi l’evoluzione della tua carriera?
Giancarlo Malagutti: Il mio spirito minimalista mi porterebbe a dire “involuzione”. Quando ho iniziato avevo molte ambizioni e sogni, ovviamente non tutti li ho realizzati ma nel corso degli anni ne ho potuti soddisfare altri. Sono sempre stato di spirito molto anarchico e poco interessato sia ai soldi che alla fama (della quale seppur superficialmente godo immeritatamente, il mio nome digitato su internet dà parecchie risposte). Ho fatto molti fumetti, alcuni buoni altri da dimenticare, ho sempre preferito storie mie, anche minori, ma delle quali potessi conservare i diritti e soprattutto potessi svilupparli come volevo; “perché sprecare la vita per realizzare i sogni degli altri?” dice Orson Welles/Vincent D’Onofrio a Ed Wood/Johnny Depp in Ed Wood il film. Ecco, questa può essere la mia filosofia di vita. Oltre al piacere di fare quel che mi pare, non avere chi mi dice come fare c’è anche il vantaggio economico perché anche sulle piccole cose si percepiscono i diritti d’autore. L’evoluzione la vedo positiva solo nel fatto che ho abbandonato le ansie del foglio bianco e riesco ancora a divertirmi molto nel fare fumetti. Ho spesso scritto (e a volte disegnato) pagine che sono uscite con nomi di altri (aiuti ad amici in difficoltà). Ho capito cosa prova un falsario quando sta davanti ad un suo quadro in un museo mentre i critici si lanciano in lodi sperticate.
Che progetti ci sono nel tuo futuro? Puoi già anticiparci qualcosa?
Giancarlo Malagutti: Relativamente al fumetto, vista anche la condizione in cui giace, non ho progetti immediati. Per alcuni anni porterò avanti il progetto Mathias, sto iniziando ora il quinto episodio. Nel “cassetto”, tra le varie idee più o meno in stato avanzato, ce n’è una che mi piacerebbe portare avanti, un idea che cominciai a sviluppare due o tre anni fa quando un amico mi disse che Bonelli cercava idee per le nuove miniserie. Buttai giù sinopsi, soggetto e parte della sceneggiatura (con anche lo schizzo dei personaggi, vecchia abitudine da disegnatore) ma quando lo stesso amico mi fece sapere che sulla scrivania di Bonelli ne erano piovute a decine, sollevai Bonelli dalla fatica di leggere anche la mia. Nell’immediato ho contratti per illustrare volumi di archeologia ai quali mi dedicherò contemporaneamente a Mathias.
Passiamo adesso al Ranger che dà nome a questo blog: oggi che sei uno autore affermato, ti piacerebbe lavorare per Tex, ti è mai stato proposto?
Giancarlo Malagutti: Tex rappresenta un traguardo prestigioso per chiunque faccia il mio lavoro, mentirei se dicessi che ne non sarei lusingato da tale proposta ma onestamente non credo di esserne all’altezza. Le sfide sono sempre un forte richiamo ma sarebbe dura, quando vedo il Tex mensile con questi fantastici disegnatori mi sento inadeguato. Anni fa ebbi frequentazioni con Magnus, era appena uscito dalla Corno, cercava una sua dimensione, ancora non aveva pensato a Lo Sconosciuto né alle altre sue opere personali. Il suo sogno era di realizzare un fumetto di grande formato in stile Flash Gordon (fece poi Milady prendendo spunto da questi albi, la prima scena della prima tavola è un chiaro omaggio a Flash Gordon, l’immagine è volutamente presa da un disegno di Alex Raymond), ammirava estasiato i volumi della Nerbini che gli portavo. Inevitabilmente si finiva per parlare di cosa ci sarebbe piaciuto fare, a volte il discorso cadeva su Tex. Lui diceva che mai avrebbe potuto disegnarlo, un po’ perché aveva una ammirazione totale per il disegno morbido e fluido di Galep (Magnus aveva cominciato ammirando i disegnatori del Vittorioso) e si sentiva inadatto (sic!) col suo disegno “gommoso”. Per lui Tex erano 4 uomini in 4 abbigliamenti western, con 4 (e più) pistole su 4 cavalli. Un lavoro, sempre secondo lui, immenso; infatti, quando poi lo ha fatto, gli ha preso un tempo lunghissimo. Per nostra fortuna non rinunciò alla sfida. Quindi, arrivando a una conclusione, non essendo Magnus non ho abbastanza vite da impiegare. Discorso diverso sarebbe per la sceneggiatura.
Cosa significherebbe per te scrivere o disegnare storie di una leggenda dei fumetti come Tex?
Giancarlo Malagutti: Vale quel che ho risposto alla domanda precedente, ma visto che tra me e una ipotetica sceneggiatura per Tex la distanza è abissale, possiamo parlarne per puro esercizio dialettico. Sì, sarebbe interessante anche se temo di essere troppo vecchio per avere la flessibilità di plasmarmi al modello di scrittura di altri, che richiede capacità non indifferenti e che gli attuali sceneggiatori svolgono benissimo. Ma poiché è puro esercizio intellettuale posso dire che, tre o quattro anni fa, durante il periodo natalizio, accudivo mio padre in ospedale e avevo lunghi periodi di inattività, così mi misi a scrivere (chissà perché) una storia di Tex e Lilith. Una avventura situata nel periodo che G. L. Bonelli non ha mai sviluppato, quella del post-matrimonio. Perché lo feci non lo so, forse perché come nella pittura a volte viene voglia di fare “alla maniera di”, tanto per mettersi alla prova. Scrissi il soggetto e alcune pagine di sceneggiatura, Lilith ricopriva un ruolo importante di compagna non succube e, benché avessi rispettato l’impianto narrativo, aveva un che di texianamente romantico. Poi la scordai, e mi tornò in mente in occasione dell’uscita de “Il sentiero dei ricordi”. L’ho riletta per vedere se c’erano punti in comune, la mia è diversa e, me lo dico da solo, non male. L’argomento non essendo “bruciato” poteva interessare Bonelli? In un momento di scarsa lucidità pensai di mandargliela, oltretutto con il velato suggerimento di farne una storia da far uscire nel periodo di San Valentino. Per fortuna rinsavii, Bonelli è stato risparmiato (sono certo che Sergio sia un non violento ma meglio non rischiare) e la storia giace sepolta nel mio computer.
Chi o cosa è Tex secondo te?
Giancarlo Malagutti: Per rispondere debbo sdoppiarmi come lettore e come fumettaro. Come lettore lo trovo una perfetta forma di intrattenimento, mi piace sapere che quando prendo in mano un suo albo so cosa leggerò e che non mi tradirà. Quando mi capita di leggere delle critiche (legittime) non le capisco. Tex mi offre per soli due Euro e settanta un momento di intrattenimento piacevole che possiamo paragonare a un buon film. A volte ci sono storie che possono piacere meno, ma ci domandiamo se è la storia che non regge o siamo noi che in quel momento non siamo ben disposti. Ci si accosta a Tex attorno ai 12/15 anni, ancora ingenui, con uno spirito ancora vergine, pieni di sogni. Poi si cresce, la vita ci mette davanti tante situazioni a volte buone a volte no, l’emozione delle prime volte non può essere la stessa. Anche la nostra compagna (o moglie) non ci fa più palpitare, balbettare e sudare freddo come la prima volta che l’abbiamo invitata a cena, ma non per questo non la amiamo ancora. Personalmente quando ho cominciato a leggere Tex eravamo attorno ai numeri 100/110, che per me (nostalgicamente) restano i più belli. Ricordo che Montorio mi diceva che lui non lo leggeva quasi più perché non era lo stesso Tex dei suoi anni (i ‘50). Ognuno è legato a un periodo. Questo mi fa venire in mente un bel film con Gèrard Philipe, “Les belles de nuit”, nel quale Gèrard, andando indietro in varie epoche storiche, incontra sempre un vecchietto che si lamenta rimpiangendo i buoni vecchi tempi.
Cosa ti piace di più nel Ranger e cosa di meno?
Giancarlo Malagutti: Se intendiamo il Ranger come personaggio e non come testata, lo trovo estremamente caratterizzato con una sua forte identificabilità. Non ci sono cose che non mi piacciono appunto perché Tex, come uno di famiglia, sai sempre cosa dirà e come reagirà. Personalmente non sono un fanatico delle storie magiche o horror, benché quelle con Morisco, che hanno spesso una base scientifica, le trovo gradevoli. Sono più amante dell’impianto classico cittadino, “Tex va e mena il cattivo di turno”. L’unico piccolo appunto, se posso, mi spiace che le donne (o le ragazze) siano relegate in ruoli di contorno e siano sempre destinate a fare una brutta fine. Quando vedo donne all’inizio di una storia non me la godo perché so che alla fine questa, buona o cattiva che sia, finirà morta ammazzata. Fossi al loro posto direi, “no grazie, resto a casa perché tanto farò una brutta fine”. E volendo essere più arditi, darei un nipotino a Tex. E’ uno dei pochi personaggi italiani (se non l’unico) che abbia un figlio, un nipote non stravolgerebbe più di tanto l’impianto narrativo. Vedere Carson fare il “nonno” sarebbe divertente. Conosco tutte le possibili contestazioni, dalla più banale, “poi tutti i cattivi lo rapirebbero” (banale in quanto, se fosse così, nella vita chiunque ha ruoli importanti non dovrebbe procreare) a quella più logica, un bimbo darebbe la misura del tempo che passa. A meno che di non cristallizzarlo all’età di 3/5 anni.
Ritieni che Tex sia cambiato negli ultimi anni? Sotto quali aspetti?
Giancarlo Malagutti: Cambiamenti ce ne sono stati e sono evidenti, ma per lo più sono sviluppati nell’anello esterno; il cuore, la psicologia, la struttura base del personaggio mi pare rimasta inalterata. Anche quando ha dovuto passare per altre mani e altre personalità diverse da G. L. Bonelli. Qualcuno contesta che abbia concesso un po’ troppo al politically correct ma questa evoluzione è naturale. Poi bisogna pensare anche a chi ci si accosta per la prima volta, ai ragazzi (e non solo visti i tempi) che potrebbero non avere le strutture mentali e culturali per capire. Il disegno è quello che ha subito i cambiamenti più evidenti, si è fatto più arioso, è passato dalla morbidezza classica di Galep a una schematizzazione moderna nella dimensione epica che gli ha infuso Ticci. Trovo che gli ultimi disegnatori abbiano saputo coniugare questi due stili in una versione “terza”, moderna e classica al contempo.
Secondo te cos’è che rende Tex l’icona che è?
Giancarlo Malagutti: Suppongo che s’intendi icona come struttura di personaggio e non icona-immagine. Quest’ultima, stranamente per un fumetto, è meno forte della prima, è vero che negli ultimi anni si è insistito sulla camicia gialla (anche il logo Tex è sempre giallo) ma non ha i canoni classici della riconoscibilità tipica dei fumetti come Zagor o Superman con i loro costumi. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che Tex è personaggio più adulto, si basa sulla forte personalità e non abbisogna di immediata riconoscibilità. Diventa icona grafica quando ha Carson al fianco o ci sono tutti e quattro i pards assieme, le due o quattro figurine si visualizzano come marchio. Il personaggio invece è forse più iconico. La sua personalità è forte (perché era forte G. L. Bonelli), questo lo ha fatto passare indenne negli anni e tra le mode uscendone sempre vincente. Tex è un luogo-contenitore, un perimetro chiuso, quasi un universo parallelo dove può accadere di tutto, dove è possibile sviluppare temi moderni e di stretta attualità (anche politici) filtrati dalla mitizzazione e cristallizzato nel tempo e nel passato.
Per concludere il tema, come vedi il futuro del Ranger?
Giancarlo Malagutti: Contraddicendo quanto in parte detto sull’auspicio del nipotino se, a mio modestissimo parere, continuerà a muoversi sui suoi solidi binari narrativi, Tex resterà per sempre. Che forse Shakespeare o Goldoni non si continuano a recitare? I classici restano per l’eternità e Tex un classico ormai lo è. Non a caso viene letto sia dai giovani che dai meno giovani, da chi lo ha scoperto nel 1948 a chi solo ieri all’edicola o nella biblioteca del padre. L’unico rischio è che lo si voglia cambiare inseguendo mode (spesso effimere) del momento, il che stravolgerebbe il carattere e, commercialmente, sarebbe disastroso perché perderebbe i vecchi lettori per non acquistarne di nuovi. Ma con Sergio Bonelli alla barra questo difficilmente accadrà.
Quali fumetti leggi attualmente ovvero con quali ti identifichi maggiormente?
Giancarlo Malagutti: Sono sempre stato attratto dai fumetti sperimentali anche se spesso sono troppo ombelicali e (purtroppo) supportati da disegni dilettanteschi. In questo momento sono molto orientato verso la produzione franco-belga, sto rileggendo tutti i classici (e non) degli anni ‘50 – ‘60, tra i quali Alix, Lefranc, Corentin e quel capolavoro di Gil Jourdan. Tra i nuovi, uno splendido volume appena ricevuto, un album doppio, Elle, di Fanny Montgermont. Una storia molto poetica e splendidamente disegnata. Grazie al cielo non sono affetto da disposophobia (da anni aspettavo di poter usare questo termine), quindi non accumulo, anzi leggo, regalo o butto. Così spesso ricompro le stesse cose a distanza di anni per rileggerle. Sono attratto anche dalle fumettografie minori e cerco di esplorare quelle di paesi che spesso non vengono considerati patrie di fumetti. In questo momento faccio incetta di comics tedeschi e olandesi e di tutti i paesi del nord Europa, ci sono pubblicazioni di pregio, ben fatte, con ottimi disegnatori (più difficile, causa lingua, giudicare i testi). Quando voglio rilassarmi faccio un tuffo nel passato e mi rileggo uno Zagor degli anni Sessanta, un vecchio Alan Ford o un qualsiasi album di Goscinny.
Come spieghi il fatto che le migliori serie western (Tex, Blueberry, Comanche o Lucky Luke, per esempio, anche se quest’ultimo in stile umoristico) siano tutte d’origine europea?
Giancarlo Malagutti: Dal punto di vista estetico sono d’accordo, in Europa si sono prodotti i migliori film e fumetti western (almeno negli ultimi tre decenni); forse però in Europa abbiamo fatto solo della bella estetica, perché la distanza, sia storica che fisica, dall’ovest americano ci ha cristallizzato in una idea del west che riprendeva quello classico dei Ford o degli Hawks. Nei fumetti (se escludiamo Blueberry e Ken Parker) il discorso è più o meno simile, non abbiamo mai approfondito temi sociali e psicologie diverse. Il nostro West è una cristallizzazione di miti, sia visivi che storici, sempre situata temporalmente tra il 1870 e 1880. Per gli americani il West è il loro passato, la loro storia e quindi spaziano molto di più, nel tempo e nei temi. Il fumetto americano è molto industria e il tema western ora non è di moda ma, data l’alta professionalità dei loro fumettari, credo che in caso di ritorno del western saprebbero tirar fuori eccellenti prodotti. Nel cinema qualche ottimo prodotto lo sanno sfornare, ultimamente ho visto alcuni bei western con temi molto distanti da quello classico, Monte Walsh e Hidalgo.
A proposito, come ti è nata l’idea di rendere omaggio al Tenente Blueberry?
Giancarlo Malagutti: Più che un omaggio era una presa in giro. Una gag sulla proliferazione di testate nate per osmosi, del passato, della gioventù, del periodo militare, del bambino, dei what if?, e di tutto quel che vuoi. Contro le quali non ho nulla, anzi, sono divertenti e creano lavoro. Tecnicamente nasce dal fatto che Glenat pubblicava un Preview dei propri album, un bel volume cartonato a colori con in appendice degli omaggi ironici ai fumetti franco-belgi, e proposi la mia idea, ma quando lo portai, in occasione di una Bologna Bookfair, il Preview aveva chiuso al quarto numero. Ho così fatto vedere la tavola agli amici francesi di Hop! che molto gentilmente (è un magazine di critica non di proposte) l’ha pubblicata. Con mio grande piacere.
Oltre ai fumetti, quale tipo di libri leggi? E quali le tue preferenze nel campo del cinema e della musica?
Giancarlo Malagutti: Anche se non interesserà a nessuno, ho una vera idiosincrasia per tutto quello che viene presentato come il libro del momento, il film che ha incassato di più, ecc., quindi sono sempre in arretrato sulle mode. Pian piano mi sono più interessato ai saggi e alle biografie di personaggi storici. In questo momento sto leggendo sul brigantaggio nelle regioni del sud Italia dopo l’unificazione dello stato italiano. Argomento, situazioni, tasso di violenza e location che nulla ha da invidiare al West e che sarebbe interessante per una miniserie bonelliana. Mi piace il cinema che racconta una storia, anche minimale (The indian runner di Sean Penn), e non si basi solo su effetti speciali e quattro standardizzate frasi fatte a effetto. Ho l’impressione che per la maggior parte siano film fatti per i ragazzi per quanto ci siano degli ottimi prodotti. Il mio nipotino di sei anni mi ha fatto vedere in DVD Bedtime Stories della Disney. Molto divertente. Mi pare che oggi la produzione televisiva sia molto più avanti nei temi e nel linguaggio, mentre il cinema non ha fatto altro che imbambinirsi. Almeno quella TV statunitense perché stenderei un velo pietoso su certe produzioni italiane (escludiamo Montalbano). Steven Bochco questo sconosciuto. Visto che me lo chiedete, vi tedio anche con la musica, ascolto di tutto (nei limiti della decenza) con una preferenza per il rock progressive degli anni ‘70, anche se c’è chi fa delle buone cose pure oggi come I Finisterre o gli Ainur. E dal bello Portogallo ho appena comperato la discografia dei Go Graal Blues Band (blues rock). E sempre grazie al Portogallo ho conosciuto la discografia di Patrizia di Malta.
Bene, noi avremmo finito. C’è ancora qualcosa che vorresti dire? Qualcosa che non ti è stato chiesto e che avresti assolutamente voluto far sapere ai nostri lettori?
Giancarlo Malagutti: Credo di avervi annoiato abbastanza.
Caro Giancarlo Malagutti, a nome del blog portoghese di Tex ti ringraziamo moltissimo per l’intervista che ci hai così gentilmente concesso.
Giancarlo Malagutti: Grazie a voi, è stato un piacere.
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